Bucaniere e i suoi racconti 2024

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    Bucaniere 1/3/24

    Storie ed epitaffi , Dedicato ai miei nonni


    Storie ed epitaffi



    Era cresciuto con la nonna.
    Sua mamma, maestra, dopo aver vinto il concorso aveva scarpinato per diverse scuole della Garfagnana, prima di ottenere una cattedra più gestibile a Marginone a 15 chilometri di distanza da casa.

    La vita della maestra in Garfagnana non era facile, le vie di comunicazione e i mezzi di trasporto non erano quelli di oggi. Raggiungere un paese come Capanne di Sillano o Calomini da Monsummano, il loro paese, voleva dire, andare in bicicletta fino a Montecatini; poi con il treno fino a Sillano, cambiando a Lucca, e poi un bel pò di chilometri a piedi su una mulattiera, fra ali di neve nei mesi invernali.

    Voleva dire partire da casa la domenica subito dopo pranzo, per tornare il sabato a pomeriggio inoltrato, visto che anche al sabato mattina si faceva scuola. Non tutte le maestri o i maestri lo facevano ogni settimana. Lei lo faceva poprio per vedere suo figlio ancora bambino almeno una volta alla settimana.

    Anche da adulto avrebbe ricordato l’attesa della mamma sul marciapiede della stazione accanto ai binari della ferrovia.

    Un bel periodo malgrado tutto, passato a rincorrere polli nell’aia e fra la segatura e i banchi della falegnameria del nonno.

    Un’altra cosa si ricordava di quel periodo. Le frequenti visite al cimitero insieme alla nonna. Aveva perso un figlio di diciassette anni lo stesso mese in cui l’altro, suo padre, era partito militare nel 1940, e da allora il cimitero era divenuto una seconda casa per lei.

    Poteva sembrare una rottura.
    Ma i bambini sanno trovare occasioni di gioco in ogni situazione.
    Cosi, mentre la nonna accomodava i fiori e faceva il giro delle tombe, lui correva nei vialetti ghiaiosi del cimitero e si divertiva a scoprire le tombe di chi era morto in guerra. I soldati ritratti nelle loro divise esercitavano una attrazione irresistibile. D’altronde, guerra, fucili e pistole erano passatempi abituali. La sua più grossa emozione fu la scoperta addirittura della tomba di un garibaldino.

    Passarono gli anni; le visite al cimitero divennero più rare; ormai adulto si concentravano nel periodo dedicato al culto dei morti, fra la fine di ottobre e novembre. Anche la nonna e il nonno ormai riposavano lì una a fianco dell’altro in due forni adiacenti.

    Nelle sue visite non includeva solo le tombe dei familiari. Si ricordava anche quelle che avevano attirato la sua attenzione da bambino, le ricercava tutte ed era come ritrovare vecchi amici di giochi lontani.
    Il mondo era cambiato, cambiava continuamente. E anche le tombe cambiavano.

    I vecchi loculi si distinguevano dai nuovi non solo per i segni del tempo, la consunzione del marmo, le erbacce che riuscivano a radicarsi in qualsiasi crepa che nel marmo si apriva. Nascevano diverse.
    Anche sulle tombe più umili nei tempi andati improvvisati poeti posavano epitaffi di metallo, che sembravano mani protese in un estremo tentativo di aggrapparsi alla memoria dei vivi.
    Sulle tombe moderne si leggevano invece solo Nome, Cognome, data di nascita e di morte; fine.

    Chissà se chi componeva quegli epitaffi si rendeva conto che stava creando una immagine di un uomo o di una donna che non sarebbe più cambiata. Quell’uomo sarebbe stato il suo epitaffio per sempre, senza possibilità di confutazione.
    Faceva spesso queste considerazioni nella sue visite al cimitero.

    In particolare si soffermava su due tombe, poco distanti l’una dall’altra; rivolto verso l’una, poteva scorgere anche l’altra con movimenti impercettibili dello sguardo, avendo alle sue spalle i forni in cui riposavano i suoi nonni.
    Erano due giovani, un ragazzo e una ragazza morti nello stesso anno, il 1917. Ed erano nati lui nel 1898, lei nel 1899. Proprio come i suoi nonni.
    Le tombe dei i nonni anche senza epitaffio, ma semplicemente con i nomi, le date e l’indicazione della nonna come vedova , raccontavano di una vita insieme.

    La foto sulla tomba del ragazzo lo ritraeva in abiti militari, chissà forse quella era la prima e l’ultima foto che si era fatta. La sua espressione era seria già pervasa di una tristezza che sembrava presagire la sua caduta in una di quelle assurde carneficine della prima guerra mondiale.

    Era buono e caro
    Cadde per la patria
    prima che la sua vita potesse aprire le ali-

    La ragazza invece era ritratta avvolta in un velo bianco, eterea e malinconica come un fantasma anche da viva.

    La mano pietosa del Signore
    La trasse a se
    Fiore non ancora sbocciato
    Liberandola da una malattia crudele.

    Chissà, forse era morta di spagnola che in quel periodo fece morti quanto la guerra.

    Gli epitaffi avevano congelato le vite dei ragazzi in esistenze senza gioia gioia; due vite tristi e serie come le espressioni dei loro ritratti.
    Si voltò verso i suoi nonni e pensò invece alla loro vita, a quella vissuta nello stesso periodo in cui anche i ragazzi erano vivi.
    Lui la conosceva bene, perchè la nonna, da vedova, parlava spesso del periodo in cui conobbe il nonno.
    Di come la andasse a trovare la sera attraversando a piedi la Nievole; della paura che provò quando seppe che "il giovanotto bello di Monsummano" (il nonno) era stato preso o a sassate dai ragazzi del luogo e che non tolleravano intrusioni di maschi da paesi vicini; di come gli battè il cuore una volta che lo vide trarsi a forza di braccia su un susino e per quel movimento la camicia sembrasse esplodere per i suoi muscoli tesi e come sembrò bello in quel gesto; di come lo salutò quando partì per la guerra; della loro prima volta durante una licenza.
    “Non sentii nulla, mi sembrava che niente fosse successo ma ero rimasta incinta”.
    Le lettere con cui presero atto del fatto.
    “Chi doveva arrivare, non è arrivato”, scrisse la nonna.
    “Me lo aspettavo”, rispose il nonno.
    Ricordava i racconti della nonna e pensò fra se
    “Ma chi ha redatto gli epitaffi dei ragazzi, cosa conosceva delle loro vite? .
    Perché li ha condannati alla memoria di una eterna tristezza, di una vita non vissuta?.
    Magari si conoscevano, di nascosto si baciavano.
    Magari hanno vissuto le stesse cose dei miei nonni, solo che non lo hanno potuto raccontare…rimane di loro solo quel grigio epitaffio…”.
    Recitò quel che si ricordava di una preghiera per i suoi nonni. Stette un attimo raccolto. Salutò i nonni ,si voltò per avviarsi verso l'uscita del cimitero.
    Prima di andare via si soffermò per un ultimo sguardo anche alle tombe dei ragazzi; guardò lui, guardò lei; per un attimo gli sembrò di scorgere nelle loro espressioni di solito rassegnate e tristi un accenno di sorriso; strizzò l'occhio al ragazzo con fare complice e se ne andò con passo leggero come quando era bambino.
     
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    Inviato il 16/4/2024, 12:15

    La fragilità




    Sembrava una domenica come tante altre.
    Ho preso la MTB per un giro che doveva essere tranquillo, un pò di padule e poi l'argine del fiume Pescia fino a Pescia (cittadina che prende il nome dal fiume) e infine a casa a Monsummano su strada normale; 40 km di cui quasi 25 su sterrati e senza un metro di salita.

    Le cose si sono un pò complicate all'imbocco dell'argine del fiume in località Anchione, vicino a dove la Pescia finisce la sua corsa nel Padule. Causa l'alternanza caldo, pioggia si presentava come un intreccio ingarbugliato di erba e di spighe selvatiche che arrivavano all'altezza di tre quarti della ruota, praticamente inaccessibie; inaccessibile per tutti tranne che per un coglione come me che invece ci si è addentrato sperando (non si sa bene per quale motivo) che l'erba andando più avanti verso Ponte Buggianese fosse meno folta. Invece è rimasta così fino a Chiesina Uzzanese, 6 kilometri più impegnativi che una salita. Sono così arrivato a Pescia quasi a mezzo giorno, sole alto e temperature su 34 gradi, acqua della borraccia terminata e i 12 km che mi separavano da casa parevano non finire mai; una doccia e il divano più pedalavo e più assumevano le sembianze di un miraggio, la velocità diminuiva sempre più insieme alle forse.
    Mi mancava poco per arrivare a casa, un dirizzone su una specie di circonvallazione, una rotonda un semaforo e poi l'arrivo. Ma vedere quel pezzo di strada asfaltata completamente sotto il sole dell'una mi ha sgomentato e mi ha fatto deviare verso una traversa ombreggiata; ma non è bastato; mi sono dovuto fermare ormai a poche centinaia di metri da casa; ma messo il piede a terra ho capito che non ce l'avei fatta e accovacciatomi sul marciapiede ho telefona to a casa per farmi venire e prendere.
    Dovevo fare pena; un paio di macchine che sono passate di lì si sono soffermate per interessarsi se andava tutto bene, eventualmente per chiamare un ambulanza; non è vero che tutti se ne fregano di tutti; sono riuscito a dire a tutti che stavo bene e che avevo già chiamato casa mentendo sul fatto che stavo male e dicendo che avevo solo un problema alla bici.
    E' andata a finire che l'ambulanza l'ha chiamata la moglie; mi ha fatto effetto vedere la paura sul volto dei familiari più che il mio malessere, che poi era tanta voglia di chiudere gli occhi e dormire, magari lì sul marciapiede.
    Entrando in barella al pronto soccorso, ancora vestito da MTB il benvenuto di un infermiera è stato "I ciclisti dovrebbero rimanere sul divano.".
    Comunque sono tornato a casa, mi sa che se voglio riandare in bici ci dovrò andare di nascosto.

    Stamani sino uscito a comprare il pane al piccolo supermercati vicino a casa mia; ho incrociato sulla strada un vecchio che con la busta della spesa doveva essere uscito dallo stesso mercato dove stavo andando, non mi sembrava in grande forma.
    Tornando, ho trovato lo stesso vecchio seduto con la sua busta della spesa su un piolo vicino a casa mia. Mi è venuto spontaneo sincerarmi su come stesse, fosse successo solo qualche giorno prima non mi sarebbe venuto in mente.
    "Sto bene, mi riposo solo un pò...grazie." ha detto il vecchio.
     
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